martedì 27 settembre 2016

Marillion - F.E.A.R.

Di solito, dopo aver ascoltato per la prima volta un album dei Marillion (con Steve Hogarth, quelli con Fish li ho adorati fin dal primo ascolto tutti e 4) ho tre tipi di reazione:

- non è un granchè ma ci sono un paio di perle
- non un capolavoro ma è gradevole e contiene buone cose
- al primo ascolto mi sembra piuttosto particolare e ancora non mi dice nulla di definitivo sia in positivo che in negativo.

Spesso la terza reazione è quella che, col passare dei mesi, si è tramutata quasi sempre in un convinto "grandissimo album con grandi canzoni": è accaduto con Brave, con Marbles, con Afraid of sunlight (sempre piuttosto sottovalutato ma sicuramente tra i migliori della "nuova fase") ed è per grandi linee accaduto con "Sounds that can't be made", datato 2012, che rappresentava fino a qualche giorno fa l'ultima uscita discografica della band inglese. Peccato che a 3 grandissime suites (tra le migliori del repertorio di Rothery e soci) facessero da contraltare pezzi più semplici e banali, che finivano per rendere poco omogeneo (e con i Marillion accade spesso) un lavoro che dalla sua aveva diverse frecce al suo arco e che poteva piazzarsi stabilmente vicino a Marbles e Brave, considerati quasi unanimemente i migliori con Steve Hogarth alla voce.

Dopo 4 anni di assenza la band di Aylesbury si affaccia di nuovo sul mercato discografico col nuovo album: F.E.A.R. (Acronimo di "Fuck Everyone And Run"). Sebbene il titolo possa far pensare ad un album di rottura, ci troviamo invece dinnanzi ad un lavoro tipicamente marillioniano, che segue in pieno la scia degli ultimi album, con delle differenze però piuttosto sostanziali. Anche stavolta il disco è composto da 3 lunghe suites intervallate da 3 pezzi più brevi e "leggeri" (in realtà la finale "Tomorrow's new country" fa parte di "The leavers" pur essendone staccata) ma anche le suites sono a loro volta suddivise in altre sezioni di breve durata che a volte fungono quasi da canzoni separate.

L'inizio di "El Dorado" è spiazzante e inusuale: un'introduzione acustica ("Long Shadowed sun") che difficilmente si sente in un album dei Marillion, fa un effetto piuttosto strano, quasi da prog-pastorale più che da neo prog, ma poi già dalla seconda sezione muta completamente: "The gold" è già molto marillioniana, con un crescendo emozionante suggellato dal solito assolo ad effetto di Steve Rothery, si potrebbe considerare quasi un brano "completo" a se stante (è anche la sezione che dura di più tra le 5 delle quali si compone El Dorado). Con "Demolished Lives" si torna ad una sezione d'atmosfera, anche se con maggiore tensione, sottolineata dal basso pulsante di Trewavas. La quarta sezione, FEAR, è più oscura e ricorda alcune parti di Gaza: si mantiene sullo stesso tenore per tutti i suoi 4 minuti di durata crescendo molto lentamente fino ad un finale potente e con Hogarth che (lo farà poche volte) mantiene più alto il registro della sua voce. "The Grandchildren of Apes" chiude la prima suite riportando la "calma": due minuti finali affidati quasi solo al piano e alla voce. In definitiva una suite che cresce lentamente, ma che dopo svariati ascolti mostra le sue carte, pur non risultando un capolavoro fa il suo dovere e a tratti (The gold) emoziona decisamente (Voto 8).


"Living in Fear" invece è un pezzo "breve" (se si può considerare breve un pezzo di 6 minuti) e, purtroppo, piuttosto ordinario. Forse migliore di alcuni riempitivi di "Sounds that can't be made", ma non regge il confronto con quanto sentito in precedenza, tutto troppo banale e piatto. Non una schifezza, sia chiaro, ma probabilmente in questo tipo di album sunona fuori posto, probabilmente il gruppo cercava un brano che potesse "alleggerire" la tensione tra una suite e l'altra (voto 5,5)

Se El Dorado si apriva con una intro acustica alla Ant Phillips, "The Leavers" (la seconda suite dell'album) si apre con le tastiere pulsanti di Kelly, che costruiscono un'atmosfera "elettronica", ci pensa Hogarth a riportarci su lidi conosciuti conducendo il pezzo su sonorità più usuali ma ugualmente "tastierose". Il finale in crescendo ricorda un po' quello di Montreal, niente male davvero. "The remainers" nel suo minuto e trenta di durata funge da ponte per "Vapour trails in the sky", che ricorda certe cose del passato, Rothery è sugli scudi con assoli precisi e ficcanti. Dopo una prima parte più dinamica, la sezione si chiude con una parte d'atmosfera che richiama i passaggi più "malinconici" di Gaza, portandoci così a  The Jumble of days: piano e voce. In questo caso però la sezione nella seconda parte diventa più potente e "corale". "One tonight" in coda alla suite chiude il tutto in maniera ottima: tastiere e chitarre si fondono regalandoci ancora una volta un connubio perfetto (voto 8,5)

"White Paper" è in teoria un'altra ballad "ponte" ma rispetto a "Living in Fear" ha decisamente più sostanza e cattura subito l'orecchio dell'ascoltatore con le sue sonorità niente affatto originali ma dal classico marillion sound, ancora una volta è Kelly (come per gran parte dell'album) ad avere lo spazio maggiore, a ruota lo segue Hogarth. Attorno al terzo minuto arriva Rothery a regalarci un riff di chitarra azzeccato che cambia completamente l'umore del brano, ma in definitiva ci troviamo sempre dalle parti di una ballad, una ballad molto molto gradevole (voto 8)

La terza ed ultima suite (The new kings) si apre con "Fuck everyone and run" (che dà il titolo all'album) e fin dall'inizio si mostra più "oscura" delle due precedenti, facendo un po' le veci di Gaza, le ritmiche non sono molto sostenute ma la tensione si mantiene molto alta grazie alla chitarra molto "nervosa" di Rothery. "Russia's Locked Doors" ci porta su sentieri più battuti e malinconici, emozionanti, classici, ed è sempre un bel sentire, ma la chiusura è ancora una volta potente e affidata alla chitarra di Rothery che ci regala un assolo dei suoi (potente ma sempre melodico). "A Scary Sky" è più delicata ma mantiene il clima teso delle sezioni precedenti con un Hogarth in primo piano. "Why Is Nothing Ever True?" è una chiusura più dinamica e progressiva, con tastiere d'atmosfera ma con una ritmica più sostenuta, si mantiene sugli stessi livelli delle precedenti, rendendo di fatto The new Kings forse la suite più omogenea e riuscita del lotto, con pochissimi cali di tensione o "sezioni di puro raccordo". Si candida di fatto già come una delle migliori suites composte da Hogarth e soci (voto 10)

"Tomorrow's New Country" pur chiudendo l'album non è un brano vero e proprio, ma più una sezione di The Leavers (come da note allegate al disco), scelta piuttosto strana.

I Marillion, insomma, partiti dal prog sono finiti per tornare (dopo vari tentativi di adottare uno stile più "semplice") di nuovo al prog: un prog molto diverso da quello degli esordi: più "immediato", meno camaleontico ma ugualmente raffinato e pieno di tanti sapori diversi, quasi d'atmosfera. In questo album rispetto al passato tornano in primo piano le tastiere di Mark Kelly, Steve Rothery regala diverse cose pregevoli, mentre Trewavas si rivela puntuale ma poco appariscente e Mosley si limita al compitino, un po' relegato sullo sfondo. Steve Hogarth invece è ormai a tutti gli effetti un cantante maturo e capace di regalare ottimi spunti anche sul fronte dei testi, decisamente cresciuto rispetto quel rimpiazzo (preso quasi più per presenza che per capacità) di Fish che non piaceva a nessuno o quasi.

In definitva questo F.E.A.R si colloca tra i migliori lavori della seconda fase, le vette di Marbles e Brave appaiono ormai pressochè irragiungibili ma siamo dalle parti dei lavori non perfetti ma comunque pienamente riusciti, Afraid of Sunlight per capirci.

Voto 8+

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